domenica 4 ottobre 2015

L'altra Malattia
L'altra malattia.

Poi era accaduto proprio a me.
Chi lavora in ambito sanitario sviluppa delle convinzioni prima o poi, convinzioni scientifiche, etiche, deontologiche, umane.
Si esercita la professione sanitaria e la si osserva, si opera rispondendo a dei doveri di obbedienza scientifica, si amalgamano le conoscenze ad un personale uso della medicina adattandola all'uomo.
Almeno credevo.
Fino a quando non passi dall'altra parte e l'osservatore diventa osservato, sorvegliato, ammalato.
Cliente dell'azienda salute che ci dovrebbe proteggere e curare.
Quando sei un promotore di salute osservi con lenti spesse il cammino di chi sta affrontando la salita, come quando sei madre e piena di fiducia porti tuo figlio a vaccinarsi, com'è giusto che sia, in un sistema salute fiduciario che dopo soli due mesi di vita biologica inserisce un neonato sano in un sistema di prevenzione che diventerà un imprinting nella vita di chiunque.
Nasciamo sani e con una vita davanti, una vita nuova ed imprevedibile, con relazioni e legami che tracceranno come fili tessuti sociali in cui muoversi, nasciamo esattamente per questo, per entrare in altri sistemi e ci entreremo di pancia così come siamo usciti, di testa.
Poi era accaduto proprio a me.
Il dolore provato era identico a quello che il mio corpo mi stava raccontando.
Basso, laterale sinistro, spastico, dalla parte del cuore ma renale, uretrale.
Lo stesso identico dolore provato una settimana prima.
Alto, addominale, spastico, in mezzo al petto, gastrico.
Apparentemente nessun collegamento, non era il cuore biologico che soffriva e non è servito un cardiologo per capirlo, ma ora serviva un urologo per spiegarmi il resto.
Ma anche no.
Il tavolo rigido della TAC è il luogo perfetto per tirare le somme, certe somme, non tutte.
Mentre qualcuno ti inietta nelle vene il mezzo di contrasto tu hai già in chiaro e scuro tutta la tua vita davanti, perfettamente scansionata.
Ci sono almeno una decina di ragioni per cui ti convinci che sarà giusto uscire da quella macchina con una diagnosi quanto meno sibillina, poi per un paio di ragioni certe meriterai una titolazione diagnostica più accreditata, di sicuro una ragione tutti ce l'hanno per uscire con una di quelle diagnosi che ti verranno comunicate con perifrasi, metafore e luoghi comuni.
Chiudo gli occhi e mi abbandono al calore del mezzo di contrasto che sta percorrendo, ad uno ad uno, tutti i miei errori e quando arriva alla vescica brucia, brucia così tanto che capisco che devo averla combinata grossa.
Il senso di colpa.
Vedo prima del tecnico radiologo la prima scansione, la vedo da tempo.
La vedo e la tengo a bada o almeno credevo di saperlo fare.
Penso che uscirò da quel tubo metallico comunque rigenerata, avvelenata da un calice di contrasto ma vedrò chiaro in me stessa, avrò delle belle scansioni della mia anima, ben che vada.
Va bene.
Non ho quello che tutti temono, tranne io, non ho una massa.
Massa.
Mi vengono in mente tutte le parole sentite in trent'anni di mestiere per definire un tumore.
O per non definirlo, per aggirarlo, per confonderlo, per travestirlo.
Non ho paura.
Oggi è andata bene, non ho una massa, ma ho comunque un danno dentro di me, è lì che mi osserva con quel dolore lancinante al fianco sinistro, è lì che fa bollire il mio sangue fino a 40 gradi, è lì che mi fa tremare e sudare.
Ma non è una massa, rilassati baby, passerà.
Non passa.
E se passa passa per qualche stregoneria farmacologica che mi stanno iniettando dentro un catetere venoso impiantato nel braccio, passa per il paracetamolo che mangio come caramelle, passa perchè qualcuno deve farmelo passare e scrivere in cartella: “ dolore regredito, sfebbrato”.
Io sto male.
Non ho male ma sto male.
La testa va per conto suo, non sopporto la luce, tengo gli occhiali da sole di giorno, vorrei dormire, non riesco a dormire.
Chiamano uno bravo che mi prescrive una Tac nell'unico posto dove non avevano cercato.
La testa, la mia testa, davvero pensate di capirla con una Tac? Prego.
Altro giro, altro liquido che brucia nelle vene, ma la Tac del cuore nessuno che la inventerà?
Non ho una massa che comprime, o se comprime comprime ben altro, anche se non la vedete.
Inizia un corpo a corpo tra loro e il mio sangue, che è anemico, ribelle, incazzato, denso, caldo, passionale, rosso, Rh negativo.
Negativo.
Finalmente una risposta da laboratorio, quindi certa, anzi certificata da un antibiogramma.
Ho una causa, ho un nome, ho il nome del batterio che sta facendo i cazzi suoi a casa mia.
Ho il nome e il cognome del mio avversario, posso combatterlo, sfidarlo, vincerlo.
Altro veleno, dentro di me.
Mentre diluisco l'ennesimo antibiotico che mi inietterò nelle vene mi chiedo come può un flaconcino dal costo unitario di euro 198 salvarmi da tutte le mie paure.
Faccio un rapido conto, costo 600 euro al giorno al SSN, cazzo devo averla combinata grossa.
I soldi, maledetti, ecco un'altra paura.
Vorrei averne tanti oggi, per vivere serena, per poter acquistare una macchina per Fabio, per aiutarlo nella sua crescita, per mandarlo all'università.
Baratterei questa terapia con l'equivalente per aprirgli un conto in banca.
Ma non ho che uno stipendio, qualche rata da saldare e me stessa, sola.
Il batterio gode lo so, lo sento, si piazza sulla vescica e balla una tarantella cercando di risalire dal torrente venoso, arriva fino alle porte della splenica e trova chiuso, si gira e torna giù, nei bassifondi.
La terapia costosissima sta facendo il suo sporco lavoro, pare certo che guarirò, l'ha detto il giovane medico che dimettendomi mi ha detto: “per questa volta è andata bene”.
No, non è andata bene.
Poteva andare meglio se la massa era una bella massa e entravo di diritto in qualche bel protocollo oncologico preconfezionato, non è andata bene perchè avete scandagliato il mio corpo cercando il peggio senza osservare il minimo che era lì che vi guardava, mi avete pensata oncologica, poi psichiatrica, poi infettiva, poi depressa e su qualcosa avrete avuto anche ragione.
Mi avete iniettato, prelevato, misurato, parametrato, infilato, somministrato, perfuso, introdotto, valutato.
Non mi avete mai chiesto cosa era successo nella mia vita perchè ad un certo punto le mie difese immunitarie erano crollate, non ve ne importava nulla, vi bastava la conta dei globuli bianchi, vi bastava veder sventolare la proteina C reattiva per salvarmi e salvarvi dai nostri umani limiti.
No, non è andata bene.
In otto giorni ho visto trasformarsi l'efficienza e lo zelo diagnostico in compulsione sanitaria, come un fantoccio sono stata sbarellata da un ambulatorio all'altro nell'attesa di un verdetto, perchè un verdetto cercavate, una cazzo di diagnosi, un DRG (Diagnosis Related Groups), una ragione per poi spendere tanti, troppi soldi per curarmi adeguatamente.
Ma vi dico grazie.
Grazie per non avermi inserita in un programma oncologico, grazie per le cure efficaci e le consulenze gratuite, grazie per non avermi spiegato cosa era successo nel mio corpo ad un certo punto della mia vita.
Forse dovrei spiegarvelo io.
Ma mi rimandereste dal neurologo.
E' andata bene sì, sono qui, sono viva, e fortunatamente molto lucida.
La salute mi parla, il mio corpo mi racconta ogni giorno delle cose e io, semplicemente, mi metto in modalità ascolto attivo.
Anche adesso che scrivo, so che questa colite è terapeutica.
Benvenuta cara nel mio giardino di nuvole e lenzuola.
Accomodati, posso offrirti qualcosa?
Tiramisù




La prima volta che conobbi Emanuele mi ritrovai subito a mangiare con lui e Arianna, la mia infermiera guida, un meraviglioso tiramisù.
Ero trasferita da una settimana dal reparto ospedaliero dove lavoravo, una divisione geriatrica, alle cure domiciliari ed Emanuele era uno dei pazienti che dovevamo visitare quel pomeriggio.
Arianna era la mia infermiera guida, ero cioè affiancata a lei per un periodo di un mese, e meno male perchè la realtà delle cure domiciliari, rispetto all'ospedale, mi sembrava una galassia sconosciuta ed ostile.
Il tiramisù era la prestazione del pomeriggio, già.
Le colleghe del mattino avevano già provveduto a tutto, la visita del pomeriggio era quasi una visita di cortesia, visita che durava da 5 anni, epoca in cui Emanuele in seguito ad un incidente motociclistico rimase tetraplegico per una lesione midollare C2-C3 (cervicale alta), una di quelle lesioni bastarde che una vertebra più sopra sei morto, una più sotto e sei un vegetale nel letto che muove solo più occhi, impreca maledizioni, e respira, già respira....
Emanuele respira attraverso un buco nella gola, una tracheostomia, un buco con dentro una cannula di plastica che va lavata e disinfettata tutti i santi giorni, un buco dal quale aspirare con un aspiratore secrezioni, un buco dal quale infilare ogni tanto un apparecchio per stimolare la tosse, un buco che quando Emanuele deve parlare noi dobbiamo tappargli con un dito altrimenti esce un sibilo, un enunciato afono, un grido muto...
Emanuele vive dentro un letto tecnologico basculante, una specie di dondolo telecomandato, certe volte si fa legare con delle cinghie e vuol vedere il mondo della sua stanza da diritto e non da sdraiato, e allora lo basculiamo verso la posizione eretta, monitorandogli la pressione, perchè va giù, giù, sempre più giù, mentre lui vuole andare su, su, sempre più su e vedere il poster al muro di Bob Marley, che da sdraiato non vede.
Il tiramisù è la sua passione, la sua droga, ogni pomeriggio aspetta l'infermiera dell'ASL solo per la sua porzione di tiramisù, che si gode boccone dopo boccone, leccando il cucchiaino come farebbe un bambino, assaporando quel piccolo piacere rimasto nella sua misera vita.
A turno le colleghe delle cure domiciliari, tutti i santi giorni, preparano il tiramisù, che deve essere fatto in casa e non quelli acquistati in pasticceria, perché Emanuele è esigente e si accorge subito se il tiramisù è industriale e non fatto in casa.
Emanuele è anche un gran rompicoglioni, le infermiere del servizio sono circa una decina ma lui vorrebbe sempre le solite tre, e guarda maledettamente di storto le tirocinanti studenti, le neo assunte e quelle come me, quelle che devono imparare, quelle che devono fare i conti con lui che non si lascia fare nulla se non c’è tizia, caia o sempronia, diversamente dice alla madre di mandare via le altre che a turno arrivano, perché non ha bisogno di nulla, nemmeno del tiramisù del pomeriggio.
Emanuele è da sempre innamorato di Arianna, la mia infermiera guida.
Lo vedo da come sorride quando lei arriva, anche se poi il sorriso si spegne vedendo me.
Arianna sa come prenderlo, tiramisù a parte, Arianna fa per lui cose che nessuna fa, gli lava i capelli, gli fa la barba, gli taglia le unghie delle mani e dei piedi, lo accarezza, lo tocca, di quel tocco terapeutico che per lui è solo più possibile nel volto, tra i capelli, sulle labbra, un piccolo mondo residuo di sensibilità che è tutto ciò che resta del suo essere vivo.


Emanuele fa segno ad Arianna di “tappargli il buco” nella gola che vuol parlare.
E’ da mezz’ora che mi osserva, che muove quegli occhi seguendo ogni mio movimento, movimenti peraltro scarsi visto il mio naturale imbarazzo, mi osserva e aspetta le mie mosse, forse impaurito che io possa fargli qualcosa, non so bene cosa, visto che stiamo solo mangiando il tiramisù che Arianna gli sta somministrando imboccandolo.
Le sue labbra sono leggermente sporche di cacao e Arianna fa per prendere un fazzolettino per pulirlo.
E’ a quel punto che Emanuele dice una cosa che mi stupisce: “lascialo fare a lei, fammi pulire le labbra da lei”.
Arianna sorride e mi dà tra le mani il fazzoletto.
Sembro scema, avrei avuto meno difficoltà a fare una rianimazione cardio polmonare, una defibrillazione in urgenza, invece dovevo pulire la bocca a questo ragazzo e mi sentivo imbranata, impacciata, sotto osservazione.
Con quel fazzolettino di carta tra le mani appoggio delicatamente il mio dito rivestito di carta sulle labbra del ragazzo, quasi disegnandone i contorni, con un movimento circolare, con calma, senza farlo sembrare un gesto di pura igiene personale, ma trasformandolo, a mia insaputa, in una carezza inaspettata per chi la offriva, ma non per chi la stava ricevendo.
Poi un gesto inaspettato mi esce spontaneo, volontariamente intingo il mio dito nel cioccolato residuo rimasto nella coppetta e con un sorriso gli sporco la punta del naso dicendo “ehi, ma sei sporco anche qui!”… e con il fazzoletto lo pulisco facendogli un buffetto sul naso.
Mi sento meno cretina quando Emanuele sorride sebbene si affretti a dire “ok baby, prima prova superata, vediamo quando dovrai ficcarmi il dito nella tracheo se sarai promossa”.
Nacque così questo rapporto di amore-odio che ho avuto la fortuna di vivere con il primo giovane malato della mia carriera di infermiera condotta.
Un rapporto complesso, fatto di grandi emozioni, di grandi litigate, e di tiramisù preparati alle nove di sera perché sennò domani Emanuele…….
Cinque anni di un rapporto assistenziale che alla fine diventa parentale, amicale, e che crea quegli inevitabili (forse) legami affettivi che restano addosso per sempre, anche quando una banale infezione urinaria ci porta via per sempre un amico che ci manca ancora oggi e che ricordiamo sempre con la dolcezza, quella dell’amicizia e quella del tiramisù.
Panda Rei

sabato 3 ottobre 2015

Contro natura.
Penso che talvolta la medicina sia contro natura.
Penso che il progresso scientifico e la ricerca si siano così avvicinati al divino che la morte è diventata un evento avverso quasi casuale, salvo poi diventare devastante ed improvviso proprio laddove quella scienza ha miseramente fallito.
Ci siamo così tanto concentrati ad inventare il farmaco per eccellenza, quello che sconfigge il cancro, quello che ci salverà, quello che ci renderà tutti immuni ai peggiori mali dell'uomo che, strada facendo, abbiamo inventato anche una marea di pillole che allungano pericolosamente la vita di chi sta andando naturalmente verso una fisiologica e prevedibile conclusione.
Stamattina ho visitato nelle loro abitazioni tre pazienti ultranovantenni, arrivati alla rispettabilissima età citata proprio perchè accuditi con amore e rispetto nelle loro case e non in una casa di riposo.
L'amore fa miracoli ma è la scienza che a volte fa più danni che la vecchiaia stessa.
Un anziano andrebbe solo nutrito, lavato, ascoltato, considerato, pettinato, idratato, occupato, curato con normali terapie di supporto.
Quando un anziano in una casa si aggrava per ciò che la natura e il buon dio hanno deciso per lui non andrebbe intubato, cateterizzato, legato, incanulato, medicato, esplorato, infilzato, aspirato.
Andrebbe solo.... accompagnato.
Vaglielo a spiegare ai medici iperinterventistici che o lo silurano in ospedale o lo silurano a noi delle cure domiciliari illudendo una famiglia intera sui miracoli della scienza, sulla necessità di tentare tutto il tentabile, di intraprendere cure complesse e devastanti per guadagnare cosa? un mese di vita in più?
Che mese sarà quel mese?
Un mese fatto di infermieri rompicoglioni che lo tortureranno, di medici che si inventeranno esami diagnostici assurdi e viaggi in ambulanza faticosissimi, un mese di flebo e cateteri infilati ovunque, un mese che nessuno vorrebbe avere in più.
A novantanove anni stamattina una vecchia che non parla più da tre mi ha detto con gli occhi: "basta".
Tra me e lei ci siam dette che arrivare a cento così sarebbe stata una sconfitta.
Avrei dovuto farle una esplorazione rettale e vedere se nel suo alvo c'era un fecaloma, un tappo di cacca che le impediva l'evacuazione.
Quando si dice un lavoro di merda.
Ma perchè mai avrei dovuto farle tanto male?
Ci penseremo domani.
Oggi se non farà la cacca amen, la faremo domani.
La prescrizione alla famiglia era banale ma solidale con quella povera vecchia dagli occhi imploranti: mele cotte tiepide e un massaggio rotatorio sull'addome, da sinistra a destra, dolcemente.
A cent'anni tutto dovrebbe essere dolce.
Dolcemente si dovrebbe poter morire.
Panda Rei

Campagna contro aziendale "Adotta un Nonno"

Quando si è malati bisogna avere culo.
Il nostro SSN prevede solo due condizioni psico fisiche: la salute o la malattia.
Quindi se sei sano, fortuna tua, spendi un sacco di soldini per fare qualsiasi esame diagnostico con tempi di attesa biblici, da uno a 12 mesi, in modo che nel mentre tu possa liberamente ammalarti quel tanto che basta per arricchire invece il vasto mercato della sanità privata.
Poi sempre per fortuna, se arrivi a festeggiare vivo i 65 anni, ottieni finalmente l'esenzione per età, ti certificano che sei un povero vecchio senza soldi e con poca salute e ti regalano pure gli esami del sangue e le radiografie che confermano che sei proprio un miracolato di Dio e dell'Asl.
Diverso è se sei un vero malato.
Di questi tempi avere una bella malattia diagnosticata e certificata è un lusso per pochi (molti ahimè), ti mettono un bel numero su una carta che parla chiaro: sei un 034? poverello, hai la sclerosi multipla, però hai gratis una elettromiografia, hai uno 048? figo, ti mettono gratis tutta la chemio che vuoi, ti regalano dosi di oppiacei, e hai pure una corsia preferenziale quando devi fare il prelievo di sangue.
Essere malati è preferenziale che essere sani.
Poi ci sono "gli altri".

Chi sono gli altri?
Gli altri sono tutti quelli che non sono sani ma nemmeno malati.
Quelli che sono quasi vecchi ma non completamente vecchi.
Quelli che non hanno una esenzione ma tutti i malanni del mondo.
Quelli che avrebbero diritto ma sono non aventi diritto.
Quelli che non hanno un euro in tasca ma devono pagare tutto per avere poco o nulla.

Gli altri sono i nostri poveri vecchi.
Quelli che noi infermieri delle cure domiciliari vediamo tutti i giorni affluire nelle nostre sedi distrettuali per cercare di capire perchè non hanno diritto ad una iniezione a domicilio, perchè non possono fare gratis gli esami se hanno la pressione alta, quelli che non hanno nessuno che li accompagni per ospedali a fare visite importanti, quelli che vivono soli, senza badanti, con una pensione da 400 euro, quelli che non hanno modo di rilevarsi la glicemia se diabetici in farmacia, quelli che hanno brutte ulcere venose alle gambe ma non sanno come medicarsele, quelli che gli scappa già la pipì di notte ma non hanno l'esenzione per i pannoloni, quelli che nessuno considera più, nemmeno i loro medici curanti, perchè sono noiosi, petulanti, arrabbiati, mezzi matti, fastidiosi, inutili.
Ecco inutili.
Inutili perchè non classificabili.
Nè vecchi matusalemme, nè giovani oncologici, nè carne, nè pesci.
Scarto di un sistema sanitario che non sa che farsene di questa fetta di società borderline che invece per noi ha un nome ed un cognome preciso: "società fragile".

E' su questa popolazione che Paola (la mia collega) ed io stiamo investendo professionalmente ed umanamente.
Facile curare un malato, più difficile prendersi cura di chi ha paura di diventarlo.
La vecchiaia non è una malattia, è uno stato sociale che predispone a così tanti problemi che fare una iniezione diventa il problema minore.
Nel nostro piccolo sistema sanitario periferico abbiamo adottato un modello assistenziale di cure primarie, principalmente preventive, che abbiamo simbolicamente rinominato "Adotta un Nonno", ma che ha una sua matrice organizzativa in itinere che corrisponde ad un monitoraggio continuo di famiglie o persone "bisognose" dove il bisogno non è necessariamente solo sanitario ma anche e soprattutto umanitario, dove la solidarietà e l'ascolto vengono prima di una serie di prestazioni più o meno erogabili.
Quello che eroghiamo non ha codici, non ha numeri, non ha certificazioni.
Spesso eroghiamo semplici visite domiciliari con l'ausilio di caffè e torta di mele appena sfornata, sovente ci accolliamo problemi di varia natura non identificabile che noi risolviamo con due telefonate ad hoc, mentre per loro sarebbe l'abisso del nulla.
In una realtà sanitaria fatta sempre più di restrizioni e privazioni, dove la medicina è medicocentrica e prestazionistica, ci piace pensare che la nostra Panda (Panda rei) quando entra in un cortile porta nelle case prima di tutto quel che serve davvero alle persone per sentirsi prese in carico: la considerazione.
Se poi c'è da medicare una gamba si medica, se c'è da accendere una stufa a legna..... anche.
Paola ed io nel 2013 abbiamo adottato ufficialmente tre nonne, ufficialmente perchè le abbiamo codificate in qualche modo nel complesso meccanismo delle cure domiciliari.
Ma abbiamo abusivamente adottato intere frazioni, cascine, case, persone, nonni, nipoti, cani e gatti.
Ci piace così.
Ci piace essere infermieri così.


Panda rei 



Esperta in lesioni difficili del cuore.


Ho imparato a guardare dentro le ferite, le fotografo, le annuso, le catalogo, le stadio, le racconto.
Si chiama tecnicamente la wound bed preparation, ovvero la preparazione del letto di ferita.
Già perchè una ferita per guarire va prima preparata.
La osservo e ci vedo sporcizia, sono gli schiaffi, le offese, gli addii.
Formano una coltre spessa nerastra, sotto di essa c'è ancora altro dolore, c'è paura, c'è ricordo, c'è abbandono.
A volte la crosta non è così dura, a volte il tempo ha diluito gli eventi e li ha resi come più morbidi, meno aggressivi, ma è anche peggio.
Sotto la crosta si annida il dolore vero, quello profondo.
Lava via, detergi, pulisci, rimuovi.
Una spugna abrasiva sul cuore, gratti fino a farti male, sciacqui con altri ricordi, quelli dei giorni felici, disinfetti con lacrime di dolcezza.
Ecco il letto è pronto, sto sanguinando, sono viva cazzo, sono viva.
Le ferite d'amore cicatrizzano male ma il letto di ferita è pronto.
Hai rimosso tutto e adesso devi riparare.
I bordi sono duri, come la cornice di legno di un quadro senza il dipinto.
Il sangue è rosso vivo e pullula di nuova vita.
Non esiste una prima intenzione, neppure una seconda, la guarigione non ha intenzione alcuna di vincere e lo so.
Eppure sono io l'esperta di ferite, devo ripararmi da sola.
Prendo un siero, uno qualunque, e lo metto sul cuore.
E' una carezza.
In quella carezza c’è l’accoglienza.c’è la cognizione del dolore che provo, c'è il coraggio di affrontare la cura, la guarigione.
Brucia, fa male, sanguina ancora.
Poi si infiamma, poi si quieta, poi mi da tregua.
Vorrei coprire tutto, nascondere quel danno, metterci una benda, occludere ogni pensiero.
Invece cospargo di dolcezza quella piaga che inaspettatamente si lascia accarezzare.
Cuoio la mia pelle adesso.
Riparata, mai più vellutata
La cicatrice mi ricorda che sono qui, che sono sopravvissuta.
Qualunque fosse il mio inferno, che fosse di ghiaccio o di fuoco, l'ho attraversato.
E sono qui.


Panda Rei

Il miglio verde



«Sono stanco, capo. Stanco di andare sempre in giro solo come un passero nella pioggia. Stanco di non avere un amico che mi dica dove andiamo, da dove veniamo e perché. Stanco soprattutto del male che gli uomini fanno agli altri uomini. Stanco di tutto il dolore che sento nel mondo ogni giorno. Ce n’è troppo per me. È come avere pezzi di vetro conficcati in testa»

Il gigante buono del film «Il Miglio Verde» John Coffey. Fu concepito in una notte insonne da Stephen King, che gli volle dare le stesse iniziali di Jesus Christ e in fondo lo stesso destino. Un uomo semplice, dotato di poteri di guarigione straordinari, viene giustiziato sulla sedia elettrica per una colpa orribile che non ha commesso. Potrebbe scappare, non lo fa. Potrebbe odiare, non lo fa.
Ama e cura il suo prossimo in modo sovrumano, eppure è fragile, pieno di paure.

Similitudini.

A volte sono stanca, stanca di salire sulla Panda con quell'inutile borsa degli attrezzi, stanca di cercare di capire, di cercare di aiutare, di cercare di esserci. Stanca soprattutto di tutte queste malattie sempre più rapide, stanca di dire che andrà tutto bene, stanca di promettere ciò che a fatica mantengo.
Ce n'è troppo per me talvolta, è come essere una spugna, assorbire tutto, senza tregua, è come farti strizzare ogni giorno.
Ognuno di noi ha da percorrere il suo ultimo miglio verde ma essere su quel miglio ogni giorno con altre persone è come guidare senza cintura, senza airbag, senza antidoti.
E allora capita che per sopravvivere diventi spugna e assorbi storie fino a trasformarle in sintomi che non sono i tuoi, e lo sai, ma li prendi e li fagociti pensando che sia magari anche giusto così.
La colpa, quel fardello universale che prima o poi qualche cultura o qualche vissuto ti mette sulle spalle e ti costringe a portarne il peso. Il dolore, vero o presunto, del corpo o dell'anima, liquido come il sangue, perfetto per la spugna.

Ci penso quasi tutte le notti mentre sono a letto, e aspetto. Penso a tutte le persone che ho amato e non ci sono più e penso a “tutti noi che percorriamo il nostro miglio verde”, ciascuno a suo tempo, ma un pensiero mi tiene sveglia più di ogni altro in queste notti: Ma qualche volta, Dio mio, il miglio verde sembra così lungo......

Panda Rei